scritti politici

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La dottrina "Responsabilità di proteggere"
Jean Bricmont: Uccidere per un mondo più giusto?

Il 23 luglio scorso, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si è tenuto un dibattito sulla Responsabilità di Proteggere. La responsabilità di proteggere è una nozione su cui i leader mondiali si sono messi d’accordo nel 2005, che ritiene gli Stati responsabili della protezione delle proprie popolazioni contro le minaccio di genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica, crimini contro l’umanità.

29 luglio 2009

Jean Bricmont
La discussione, introdotta dal presidente dell’Assemblea generale, Miguel D’Escoto (dal Nicaragua), ha visto la partecipazione di Noam Chomsky, Gareth Evans, sostenitore del R2P, ex ministro degli esteri australiano e, fino a poco tempo fa, presidente del Gruppo di crisi internazionale, Ngugi wa Thiong’o, illustre scrittore africano difensore dei diritti dell’uomo, e di me stesso. Ecco il testo del mio intervento.

Mi piacerebbe, in questa discussione, sfidare gli assunti intellettuali che sottostanno alla nozione e alla retorica della R2P. In breve, la mia tesi sarà che l’ostacolo principale alla realizzazione di una genuina R2P consiste proprio nella politica e negli atteggiamenti dei paesi che più sono entusiasti di questa dottrina, vale a dire i paesi occidentali e in particolare gli Stati Uniti.

Nel corso del decennio passato, il mondo è stato a guardare impotente mentre civili innocenti venivano assassinati dalle bombe americane in Iraq, Afghanistan e Pakistan. È stato spettatore passivo della furiosa e criminale aggressione israeliana del Libano e di Gaza. Prima ancora, abbiamo visto morire milioni di persone sotto la potenza di fuoco americana in Vietnam, Cambogia e Laos, e molti altri sono morti nelle guerre su delega americana in America centrale o nell’Africa meridionale. Nel nome di quelle vittime, noi diciamo: mai più! D’ora in poi, il mondo, la comunità internazionale vi proteggerà!

La nostra risposta umanitaria è sì, noi vogliamo proteggere tutte le vittime. Ma come e con quali forze? Come possono mai essere protetti i deboli dai forti? La risposta a questa domanda non deve essere cercata solo in termini umanitari o legali, ma prima di tutto in termini politici. La protezione del debole dipende sempre dalle limitazioni al potere del forte. La norma giuridica corrisponde a tale limitazione, fin tanto che è basata sul principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Realizzare ciò richiede una lucida ricerca dei principi ideali accompagnata da un accertamento realistico dei rapporti di forza esistenti.

Prima di discutere politicamente la R2P, mi si lasci sottolineare che il tema in questione non sono i suoi aspetti diplomatici o preventivi, ma la parte militare della cosiddetta “risposta adeguata e decisiva” e la minaccia che ciò rappresenta per la sovranità nazionale.

La R2P è una dottrina ambigua. Da una parte è venduta alle Nazioni Unite come qualcosa di essenzialmente diverso dal “diritto di intervento umanitario”, una nozione che è stata sviluppata in Occidente alla fine degli anni 70 del secolo scorso, dopo il crollo degli imperi coloniali e la sconfitta degli Stati Uniti in Indocina. Questa ideologia ha fatto assegnamento sulle tragedie umane dei paesi di recente decolonizzazione per offrire una giustificazione morale alle politiche fallimentari di intervento e controllo delle potenze occidentali sul resto del mondo.

La consapevolezza di questo fatto è presente nella maggior parte del mondo. Il “diritto” di intervento umanitario è stato universalmente rifiutato dal Sud, per esempio al Vertice del Sud dell’Avana nell’aprile 2000 o alla riunione del Movimento dei non allineati a Kuala Lumpur nel febbraio 2003, poco prima dell’attacco degli Stati Uniti all’Iraq. La R2P è un tentativo di fissare questo diritto ricusato all’interno del quadro della Carta delle Nazioni Unite, così da farlo apparire accettabile, ponendo l’accento sul fatto che le azioni militari devono essere l’ultima istanza e devono essere approvate dal Consiglio di sicurezza. Ma, allora, non vi è nulla di giuridicamente nuovo sotto il sole e io vi rimando alla nota dell’Ufficio del presidente dell’Assemblea generale per una discussione precisa sugli aspetti legali della questione.

Per un altro verso, la R2P è venduta all’opinione pubblica occidentale come una norma nuova nelle relazioni internazionali, che autorizza interventi militari per motivi umanitari. Per esempio, quando il presidente Obama, alla recente riunione del G8, ha dato risalto all’importanza della sovranità nazionale, l’influente giornale francese Le Monde lo ha definito un passo indietro poiché la R2P era già stata accettata. C’è una grande differenza tra la R2P come dottrina legale e la sua assimilazione ideologica nei media occidentali.

Comunque sia, in un mondo post II Guerra mondiale, che include le guerre di Indocina, le invasioni di Iraq e Afghanistan, di Panama e anche della piccola Grenada, così come il bombardamento di Jugoslavia, Libia e di vari altri paesi, non è affatto credibile sostenere che sono il diritto internazionale e il rispetto della sovranità nazionale ad impedire agli Stati Uniti di fermare il genocidio. Se gli Stati Uniti avessero avuto i mezzi e la volontà di intervenire in Ruanda, lo avrebbero fatto e nessun diritto internazionale lo avrebbe evitato. E se una “norma nuova” è introdotta, all’interno del contesto delle relazioni attuali tra le forze politiche e militari, non risparmierà niente e nessuno, a meno che gli Stati Uniti, dal loro punto di vista, non ritengano opportuno intervenire.

Inoltre, non è plausibile che i sostenitori della R2P parlino di un obbligo a ricostruire (dopo un intervento militare). Esattamente quanto denaro gli Stati Uniti hanno versato in riparazioni per la devastazione inflitta a Indocina o Iraq, o che è stata inflitta al Libano ed a Gaza da una potenza da essi notoriamente armata e sovvenzionata? O al Nicaragua, a cui le riparazioni per le attività dei Contras ancora non sono state pagate dagli Stati Uniti, nonostante la loro condanna da parte della Corte internazionale di giustizia? Perché ci si aspetta che la R2P costringa i potenti a pagare per quello che distruggono se non lo fanno sotto le convenzioni legali vigenti?

Se è vero che il XXI secolo necessita di nuove Nazioni Unite, non ha bisogno di chi legittima tali interventi con argomenti bizzarri, quanto piuttosto di qualcuno che per lo meno appoggi moralmente coloro che tentano di costruire un mondo dominato in misura minore dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Il punto di partenza delle Nazioni Unite consisteva nel salvare l’umanità dal “flagello della guerra”, con riferimento alle due Guerre mondiali. Questo sarebbe stato fatto proprio nel rigido rispetto della sovranità nazionale per impedire alle grandi potenze di intervenire militarmente, nonostante qualsiasi pretesto, contro i più deboli. Le guerre intraprese da Stati Uniti e NATO dimostrano che, nonostante le significative imprese, le Nazioni Unite ancora non hanno realizzato pienamente il loro obiettivo primario. Le Nazioni Unite devono impegnarsi per realizzare la loro meta fondativa prima di dedicarsi a una nuova priorità, apparentemente umanitaria, che può in realtà essere usata dalle grandi potenze per giustificare le loro guerre future minando il principio della sovranità nazionale.

Quando la NATO esercitò il proprio auto-proclamato diritto di intervento in Kosovo, dove gli sforzi diplomatici erano lungi dall’essersi esauriti, fu lodata dai media occidentali. Quando la Russia esercitò quello che considerava la sua R2P in Ossezia meridionale, fu condannata unanimemente dagli stessi media occidentali. Quando il Vietnam intervenne in Cambogia o l’India in quello che ora è il Bangladesh, anche le loro azioni furono duramente condannate in Occidente.

Questo indica che i governi occidentali, i media e le Ong, autodefinitesi “comunità internazionale”, giudicheranno alquanto diversamente la responsabilità di una tragedia umana, basandosi sul fatto che questa avvenga in un paese verso il quale l’Occidente, per qualsiasi ragione, è ostile al governo oppure in un stato amico. Gli Stati Uniti in particolare tenteranno di premere sulle Nazioni Unite facendo passare la loro interpretazione. Gli Stati Uniti non possono scegliere di intervenire sempre, ma possono, ciononostante, usare il non-intervento per denunciare le Nazioni Unite di inefficacia e suggerire che dovrebbe essere sostituite dalla NATO come arbitro internazionale.

La sovranità nazionale è talvolta stigmatizzata dai promotori dell’intervento umanitario, o della R2P, come una “licenza di uccidere”. Abbiamo bisogno di rammentare a noi stessi il perché la sovranità nazionale dovrebbe essere difesa contro tale stigma.

Prima di tutto la sovranità nazionale rappresenta una parziale protezione degli stati deboli rispetto a quelli forti. Nessuno si attende che il Bangladesh interferisca negli affari interni degli Stati Uniti per costringerli a ridurre le loro emissioni di CO2 a causa delle catastrofiche conseguenze umane che queste possono avere sul Bangladesh. L’interferenza è sempre unilaterale.

Interferenza degli Stati Uniti negli affari interni di altri stati ha molteplici sfaccettature ma viola sempre e costantemente lo spirito, e spesso la lettera, della Carta delle Nazioni Unite. Nonostante la pretesa di agire in favore di principi come libertà e democrazia, l’intervento degli Stati Uniti ha ripetutamente avuto conseguenze disastrose: non solo le milioni di morti causate dalle guerre dirette e indirette, ma anche le opportunità perdute, la “uccisione della speranza” per centinaia di milioni di persone che avrebbero tratto profitto dalle politiche sociali progressiste intraprese da persone come Arbenz in Guatemala, Goulart in Brasile, Allende in Cile, Lumumba in Congo, Mossadeq in Iran, i Sandinisti in Nicaragua, o il presidente Chavez in Venezuela, che sono stati sistematicamente avversati, rovesciati o uccisi con il pieno appoggio occidentale.

Ma questo non è tutto. Ogni azione aggressiva condotta dagli Stati Uniti crea una reazione. Lo spiegamento di un scudo anti-missile produce più missili, non meno. Bombardare i civili - sia intenzionalmente o attraverso i cosiddetti “danni collaterali” - produce più resistenza armata, non meno. Tentare di rovesciare o sovvertire un governo produce più repressione interna, non meno. Incoraggiare minoranze separatiste dando loro l’impressione, spesso falsa, che la sola Superpotenza correrà in loro aiuto nel caso vengano represse, conduce a maggiore violenza, odio e morte, non a meno. Circondare un paese con basi militari produce più spesa per la difesa di quel paese, non meno. Il possesso di armi nucleari da parte di Israele incoraggia gli altri stati del Medio Oriente ad acquisire tali armi. I disastri umanitari nel Congo orientale, così come in Somalia, sono principalmente causati dall’intervento straniero, non ad una sua mancanza. È molto improbabile, per prendere un caso fra i più estremi e spesso citato dagli avvocati della R2P, che i Khmer Rossi avrebbero preso il potere in Cambogia senza il massiccio bombardamento “segreto” degli Stati Uniti, seguito dal cambio di regime da questi pianificato e che ha lasciato quello sfortunato paese totalmente disgregato e destabilizzato.

L’ideologia dell’intervento umanitario è parte di una lunga storia di atteggiamenti occidentali verso il resto del mondo. Quando i colonialisti occidentali sbarcarono sulle coste delle Americhe, dell’Africa o dell’Asia orientale, furono scioccati da quello che noi ora chiameremmo violazioni dei diritti umani, e che loro chiamarono “costumi barbari” - sacrifici umani, cannibalismo, donne costrette a fasciare i propri piedi. Anche allora, tale indignazione, sincera o calcolata, fu usata per giustificare o nascondere i crimini delle potenze occidentali: il commercio di schiavi, lo sterminio dei popoli indigeni e il furto sistematico di terra e risorse. Questo atteggiamento di retta indignazione prosegue fino a oggi ed è alla radice dell’affermazione che l’Occidente ha un “diritto di intervenire” e un “diritto di proteggere”, mentre si chiudono gli occhi dinanzi a regimi oppressivi considerati “nostri amici”, alla militarizzazione e alla guerre senza fine, e allo sfruttamento massiccio di risorse e lavoratori.

L’Occidente dovrebbe imparare dalla sua storia passata. Cosa dovrebbe voler dire questo concretamente? Bene, prima di tutto, garantire il rigoroso rispetto del diritto internazionale da parte delle potenze occidentali, dare seguito alle risoluzioni dell’ONU su Israele, smantellare l’impero mondiale di basi statunitensi così come quelle NATO, fare cessare tutte le minacce di utilizzo unilaterale della forza, ritirare le sanzioni unilaterali, in particolare l’embargo contro Cuba, fermare ogni interferenza negli affari interni degli altri Stati, in particolare tutte le operazioni di “promozione della democrazia”, di rivoluzioni “colorate” e di sfruttamento politico delle minoranze. Questo necessario rispetto per la sovranità nazionale significa che il sovrano ultimo di ogni stato nazione è il popolo di quello stato il cui diritto di sostituire governi ingiusti non può essere assunto da estranei in apparenza benevoli.

Proseguendo, potremmo usare i nostri enormi bilanci militari (i paesi NATO incidono per il 70 % delle spese militari mondiali) per attivare una forma di keynesismo globale: invece di esigere “bilanci equilibrati” dai paesi in via sviluppo, dovremmo usare le risorse sprecate nel nostro apparato militare per finanziare massicci investimenti nel campo dell’istruzione, della sanità e dello sviluppo. Se questo appare utopistico, non lo è di più della convinzione che un mondo stabile emergerà dalla “guerra al terrore” che attualmente si sta eseguendo.

I difensori della R2P possono argomentare che quanto dico non è pertinente o che “politicizza il problema” inutilmente, poiché, secondo loro, è la comunità internazionale e non l’Occidente ad intervenire, con, per di più, l’approvazione del Consiglio di sicurezza. Ma, in realtà, una tale genuina comunità internazionale non esiste. L’intervento della NATO in Kosovo non fu approvato dalla Russia e l’intervento russo in Ossezia meridionale fu condannato dall’Occidente. Non c’è stata approvazione del Consiglio di sicurezza per entrambi gli interventi. Recentemente, l’Unione africana ha respinto l’accusa del Tribunale penale internazionale (TPI) al presidente del Sudan. Qualsiasi sistema di giustizia o polizia internazionali, siano la R2P o il TPI, necessitano di relazioni di eguaglianza e di un clima di fiducia. Oggi, non esiste né uguaglianza e né fiducia tra Occidente ed Oriente, tra Nord e Sud, in larga parte a causa delle politiche degli Stati Uniti. Se vogliamo che una qualche versione della R2P funzioni nel futuro, abbiamo bisogno di costruire relazioni di eguaglianza e fiducia e quanto detto precedentemente va al cuore del problema. Il mondo può diventare più sicuro solamente se prima diventa più giusto.

È importante capire che la critica fatta qui alla R2P non si basa su di una “assolutistica” difesa della sovranità nazionale, bensì su una riflessione delle politiche degli stati più potenti che costringono gli stati più deboli a usare la sovranità come uno scudo.

I promotori della R2P la presentano come l’inizio di una nuova epoca, ma, in pratica, è la fine di una vecchia. Dal punto di vista degli interventisti, la R2P è un arretramento rispetto al vecchio diritto di intervento umanitario, almeno nelle parole, e quel vecchio “diritto” rappresentava esso stesso un passo indietro nei confronti del colonialismo tradizionale. La principale trasformazione sociale del XX secolo è stata la decolonizzazione. Continua oggi nell’elaborazione di un mondo sinceramente democratico, un mondo dove il sole tramonterà sull’impero statunitense, proprio come è accaduto per quelli europei. Ci sono delle indicazioni che il presidente Obama comprende questa realtà e c’è solo da sperare che le sue azioni corrisponderanno alle sue parole.

Io desidero concludere con un messaggio ai rappresentanti e alle popolazioni del “Sud Globale”. I punti di vista qui espressi sono condivisi da milioni di persone in “Occidente”. Questo sfortunatamente non viene riportato nei nostri media. Milioni di persone, inclusi i cittadini americani, rifiutano la guerra come mezzo per dirimere le controversie internazionali e si oppongono vigorosamente al cieco appoggio del loro paese all’Apartheid israeliana. Essi aderiscono ai fini del movimento dei non allineati, di cooperazione internazionale all’interno del rigoroso rispetto per la sovranità nazionale e l’uguaglianza di tutti i popoli. Essi rischiano d’esser presentati dai media dei loro stessi paesi per anti-occidentali, anti-americani o antisemiti. Ancora, essi sono coloro che, aprendosi alle aspirazioni del resto dell’umanità, portano avanti i genuini valori della tradizione umanista occidentale.

Jean Bricmont


Jean Bricmont insegna fisica in Belgio ed è membro del Tribunale di Bruxelles.
bricmont@fyma.ucl.ac.be

Traduzione dall’inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare (29.07.2009):
http://www.resistenze.org/sito/os/lp/oslp9g29-005443.htm

Articolo originale in inglese: (28.07.2009):
http://www.counterpunch.org/bricmont07282009.html